martedì 12 gennaio 2021

Cosa è un popolo?

 
Una delle cose più impegnative ma anche fonte di grande soddisfazione, è l'identificazione di quello che chiamiamo POPOLO.

Cosa è un popolo?
La definizione che ne da la treccani è quella di un insieme di individui che hanno origine, tradizioni, istituti, leggi e lingua comune.

Un popolo lo si riconosce non certo per le caratteristiche fisiche (che al massimo possono essere solo un fattore di secondaria importanza) ma per le caratteristiche culturali.

Ci sono popoli più omogenei e popoli meno omogenei. Ci sono popoli che si possono identificare in uno stato (l'Italia e gli italiani) e popoli che non possono identificarsi in un solo stato o in nessun stato (si pensi alle popolazioni nomadi degli zingari rom).

Esaminare cosa sia un popolo è qualcosa di mastodontico. E facilmente si può cadere in errore ampliando troppo il compasso o rendendolo troppo piccolo.

Allargando troppo le maglie della rete o restringendole troppo.

Di sicuro fra tutti i fattori, quello che spicca maggiormente e che maggiormente denota cosa un popolo sia è l'uso di una certa lingua.

Premettendo che tutti gli esseri umani provano emozioni e che queste non hanno nè colore nè razza, la partita si gioca su come queste emozioni e pensieri vengono trasmessi, conservati e/o sviluppati.

La lingua che si parla, altro non è che l'insieme dei concetti che quel popolo esprime.
Non è infatti per niente strano notare che certe lingue sono carenti di certi termini di alcuni argomenti e ricche di termini di altri argomenti.

Una lingua rappresenta un popolo ma anche una cultura. Al punto che essa muta con il mutare culturale del popolo che la esprime. Muta ma non si perde mai.
Al punto che un italiano sarà sempre legato alla cultura dell'antica Roma e della lingua, il latino, che la esprimeva. E in una certa misura anche un cittadino americano (anche afro-americano) ne sarà legato. Perchè quel popolo, quello degli Stati Uniti d'America, per quanto così lontano geograficamente e etnicamente così variegato, poggia la sua lingua (cultura) su alcuni termini che derivano dal latino.

Tutto questo discorso per dire che, secondo me, ogni diversità culturale deve essere difesa contro ogni tipo di appiattimento. Anche linguistico.
Gli anni '70 e '80 hanno conosciuto in Sardegna un movimento trasversale di persone che sono state convinte che insegnare il sardo ai propri figli fosse equivalente a marchiarli come individui di serie B.

"Se parla il dialetto, è rozzo e ignorante".
"Per essere di successo in questa società, occorre che i bambini sappiano parlare l'italiano".

Due concetti insostenibili fin dall'inizio. Iniziati male e finiti peggio.
Primo perchè già il termine linguistico dialetto, in se e per se neutro, è stato reso un termine dispregiativo. E in secondo luogo perchè chi mai può dimostrare che l'imparare una lingua (dialetto) sia un handicap per impararne un'altra?

Non sarà forse vero il contrario?

Ben vengano quindi tutti gli sforzi a re-introdurre la lingua sarda nel quotidiano, sia parlato che scritto. Ma non come una forma di tutela di una razza in estinzione ma come un'opera creativa.
E tutto deve partire da una campagna di sensibilizzazione sul tema.
Nelle famiglie e nella scuola.

Non ho problemi ad esprimermi in italiano sebbene sia sardo. Non nascondo che padroneggio la lingua di Dante in modo migliore rispetto a quella tramandata dalla mia terra. In effetti di una ho studiato grammatica, ho letto libri e mi sono esercitato nella scrittura.
Dell'altra ho solo l'abitudine al parlato, che comprendo benissimo ma che non ho studiato a livello scolastico. E questo fa la sua differenza.

Sogno quindi un popolo, quello sardo, che si riappropria della sua lingua e dei suoi dialetti. Perchè anche il sardo ha i suoi dialetti. Ognuno con la sua storia e cultura.
Penso sia giusto dare alla cosa la giusta attenzione.

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